PHAEDRA'S LOVE (2003)
Phaedra’s Love
di Sarah Kane
traduzione Barbara Nativi
con Fabrizio Croci, Francesca Zavaglia, Simonetta Checchia, Antonluigi Gozzi, Rocco Antonio Buccarello
costumi Rita Bucchi
realizzazione scene Costantino Berto
disegno luci Diego Labonia, Francesca Contento
ambienti sonori Gerardo Greco
regia Fabrizio Arcuri
assistenti Paola Cannizzaro, Matteo Daidone
una produzione accademia degli artefatti/NumeriPrimi
Dopo un’intera sessione di lavoro dedicata a Sarah Kane iniziata con gli studi su Arianna nel ‘ 99 all’interno del progetto età oscura, accademia degli artefatti decide di affrontare direttamente la scrittura e quindi il corpo dell’autrice. Lo stimolo viene dal felice incontro con la compagnia numeriprimi di Parma che collaborano attivamente e co-produce lo spettacolo. La scelta è stata immediata, non poteva che essere così, ed è ricaduta su l’amore di fedra. Leggo il testo ripetute volte e mi rifiuta, rifiuta cioè qualunque idea di messa in scena, si scurisce, diventa nero, si sottrae. E’ pieno di trappole di insidie non lascia intravedere punti d’attracco. Percepisco un’energia sotterranea un terremoto, un ritmo di fondo incessante, su cui la parola si adagia e ne esce come una canzone suonata con un vecchio grammofono. Sento come una non coincidenza un’incapacità di aderire, la storia è nota e si porta avanti come un fardello, intrappola e costringe, allora si crea uno spazio vicino, una adiacenza dove poter stare, ai margini della luce, ai bordi della stanza nella calligrafia e non nel senso della scrittura, meglio ancora negli interstizi nelle pause. Leggo con attenzione le note, cerco di mantenere presente i riferimenti a Seneca e al grand guignol e cerco di interpretare attraverso quel filtro la necessità del sangue e della violenza mescolata alla realtà quotidiana, a quelle immagini che noi viviamo già, viviamo sempre. Immagino un corridoio. Un corridoio che pulsa come un cuore su cui si stagliano nitide le ombre. Un interstizio. Una parte del corpo in controluce con le vene e i nervi scoperti. Un corridoio che è un luogo di passaggio, il purgatorio del palazzo reale. Un corridoio che è una corsia, un luogo d’attesa di vita e di morte. Immagino che tutto sia assolutamente realistico tanto da essere totalmente artificiale come la luce del sole, che filtra dalle finestre, nessuna concessione alla finzione dichiarata e quindi volutamente irreale. Una serie di ghigliottine che tagliano la scena amputano lo spazio e separano le scene così da spingere l’azione sempre più inesorabilmente avanti senza possibilità di ritorno fino a concederla al pubblico all’arena per la catarsi finale che non libera niente se non la tragedia che finalmente si compie.
Fabrizio Arcuri
Sarah Kane (1971-1999), drammaturga e regista inglese, debutta al Royal Court Theatre nel 1995 con Blasted (Dannati), scandalizzando critica e pubblico con scene di violenza, stupro e cannibalismo; stile e contenuto crudi, brutali, che segnano l’inizio di quella tendenza che prende il nome di in-yer-face-theatre (tra gli altri, Mark Ravenhill e Anthony Neilson). Seguono Phaedra’s Love (1996), Cleansed (1998) e Crave (1998), quest’ultimo influenzato dalla scrittura più asciutta e ritmica dell’amico Martin Crimp, aprendo la Kane a un nuovo stile, in cui la violenza da agita, diventa discorso: somatizzata. L’ultima opera è 4.48 Psycosis, monologo che testimonia lo stato depressivo di cui soffriva e che la porterà al suicidio nel 1999.
“[…]in Phaedra’s love creazione di Numeriprimi e Accademia degli Artefatti lo spazio è astratto,, il tempo fuori dalla storia, costumi elisabettiani e tv, una sensualità inquieta e infelice, erotismo e potere mescolati: pare che non ci sia più nulla che abbia senso fuori da quella rete di rapporti autodistruttivi.”
Valeria Ottolenghi, Gazzetta di Parma, 14 maggio 2003
“Si esce svuotati e commossi, dall’abitacolo asettico e abbacinante che contiene gli strati sempre più ridotti e in primo piano di Phaedra’s Love […] Dialoghi in sordina, ombre, graffiti kitsch, un pianista magrittiano e accenni di Massive Attack o Sex Pistols sono la partitura tesa di una devastante tragedia annunciata che al massacro plurimo finale sostituisce un’apocalisse di fantocci smembrati.”
Rodolfo di Giammarco, la Repubblica, 12 maggio 2003
“[…]perché quella scrittura risulta insidiosa all'allestimento: non può essere affrontata con ardore mimetico - giacché si ridurrebbe a superficiale macchiettiamo televisivo. […] Ecco perché, dunque, il lavoro fatto da Arcuri con il gruppo NumeriPrimi risulta interessante. [… ] Gesti minuziosi, spostamenti di equilibrio, un fraseggio spezzettato o appena sussurrato, una tensione che monta senza mai esplodere, un continuo e snervante dilatare del tempo, parole ossessive che restano sospese.”
Andrea Porcheddu, DelTeatro.it, 20 maggio 2003
di Sarah Kane
traduzione Barbara Nativi
con Fabrizio Croci, Francesca Zavaglia, Simonetta Checchia, Antonluigi Gozzi, Rocco Antonio Buccarello
costumi Rita Bucchi
realizzazione scene Costantino Berto
disegno luci Diego Labonia, Francesca Contento
ambienti sonori Gerardo Greco
regia Fabrizio Arcuri
assistenti Paola Cannizzaro, Matteo Daidone
una produzione accademia degli artefatti/NumeriPrimi
Dopo un’intera sessione di lavoro dedicata a Sarah Kane iniziata con gli studi su Arianna nel ‘ 99 all’interno del progetto età oscura, accademia degli artefatti decide di affrontare direttamente la scrittura e quindi il corpo dell’autrice. Lo stimolo viene dal felice incontro con la compagnia numeriprimi di Parma che collaborano attivamente e co-produce lo spettacolo. La scelta è stata immediata, non poteva che essere così, ed è ricaduta su l’amore di fedra. Leggo il testo ripetute volte e mi rifiuta, rifiuta cioè qualunque idea di messa in scena, si scurisce, diventa nero, si sottrae. E’ pieno di trappole di insidie non lascia intravedere punti d’attracco. Percepisco un’energia sotterranea un terremoto, un ritmo di fondo incessante, su cui la parola si adagia e ne esce come una canzone suonata con un vecchio grammofono. Sento come una non coincidenza un’incapacità di aderire, la storia è nota e si porta avanti come un fardello, intrappola e costringe, allora si crea uno spazio vicino, una adiacenza dove poter stare, ai margini della luce, ai bordi della stanza nella calligrafia e non nel senso della scrittura, meglio ancora negli interstizi nelle pause. Leggo con attenzione le note, cerco di mantenere presente i riferimenti a Seneca e al grand guignol e cerco di interpretare attraverso quel filtro la necessità del sangue e della violenza mescolata alla realtà quotidiana, a quelle immagini che noi viviamo già, viviamo sempre. Immagino un corridoio. Un corridoio che pulsa come un cuore su cui si stagliano nitide le ombre. Un interstizio. Una parte del corpo in controluce con le vene e i nervi scoperti. Un corridoio che è un luogo di passaggio, il purgatorio del palazzo reale. Un corridoio che è una corsia, un luogo d’attesa di vita e di morte. Immagino che tutto sia assolutamente realistico tanto da essere totalmente artificiale come la luce del sole, che filtra dalle finestre, nessuna concessione alla finzione dichiarata e quindi volutamente irreale. Una serie di ghigliottine che tagliano la scena amputano lo spazio e separano le scene così da spingere l’azione sempre più inesorabilmente avanti senza possibilità di ritorno fino a concederla al pubblico all’arena per la catarsi finale che non libera niente se non la tragedia che finalmente si compie.
Fabrizio Arcuri
Sarah Kane (1971-1999), drammaturga e regista inglese, debutta al Royal Court Theatre nel 1995 con Blasted (Dannati), scandalizzando critica e pubblico con scene di violenza, stupro e cannibalismo; stile e contenuto crudi, brutali, che segnano l’inizio di quella tendenza che prende il nome di in-yer-face-theatre (tra gli altri, Mark Ravenhill e Anthony Neilson). Seguono Phaedra’s Love (1996), Cleansed (1998) e Crave (1998), quest’ultimo influenzato dalla scrittura più asciutta e ritmica dell’amico Martin Crimp, aprendo la Kane a un nuovo stile, in cui la violenza da agita, diventa discorso: somatizzata. L’ultima opera è 4.48 Psycosis, monologo che testimonia lo stato depressivo di cui soffriva e che la porterà al suicidio nel 1999.
“[…]in Phaedra’s love creazione di Numeriprimi e Accademia degli Artefatti lo spazio è astratto,, il tempo fuori dalla storia, costumi elisabettiani e tv, una sensualità inquieta e infelice, erotismo e potere mescolati: pare che non ci sia più nulla che abbia senso fuori da quella rete di rapporti autodistruttivi.”
Valeria Ottolenghi, Gazzetta di Parma, 14 maggio 2003
“Si esce svuotati e commossi, dall’abitacolo asettico e abbacinante che contiene gli strati sempre più ridotti e in primo piano di Phaedra’s Love […] Dialoghi in sordina, ombre, graffiti kitsch, un pianista magrittiano e accenni di Massive Attack o Sex Pistols sono la partitura tesa di una devastante tragedia annunciata che al massacro plurimo finale sostituisce un’apocalisse di fantocci smembrati.”
Rodolfo di Giammarco, la Repubblica, 12 maggio 2003
“[…]perché quella scrittura risulta insidiosa all'allestimento: non può essere affrontata con ardore mimetico - giacché si ridurrebbe a superficiale macchiettiamo televisivo. […] Ecco perché, dunque, il lavoro fatto da Arcuri con il gruppo NumeriPrimi risulta interessante. [… ] Gesti minuziosi, spostamenti di equilibrio, un fraseggio spezzettato o appena sussurrato, una tensione che monta senza mai esplodere, un continuo e snervante dilatare del tempo, parole ossessive che restano sospese.”
Andrea Porcheddu, DelTeatro.it, 20 maggio 2003
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9 Gennaio 2020
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Michele di Mauro per lo spettacolo Confessione